Esattamente un mese fa Norman Zarcone, 27enne dottorando in filosofia presso l'università di Palermo, si è ucciso buttandosi dal tetto dell'edificio che ospita la sua ormai ex-facoltà.
Ieri in suo onore si è celebrata una funzione religiosa; gli amici hanno organizzato una fiaccolata; alcuni artisti hanno contribuito con canzoni o poesie ed infine è stato proiettato un video dedicato al giovane studente: l'impegno e il senso di libertà di Norman sono stati più volte ribaditi, in un'atmosfera di comprensibile commozione generale.
Eppure la domanda fondamentale, quel "perché?" che ognuno di noi credo si sia posto nell'apprendere la notizia, nel racconto della disgrazia viene appena citato, quasi fosse un elemento secondario o un inutile contorno a puro titolo informativo.
Diciamolo chiaramente noi allora: Norman si è ucciso perché, nonostante i suoi ottimi risultati da studente (110 e lode in filosofia del linguaggio non è mica una robina da niente!!), e ad un solo esame dal conseguimento del dottorato, si è visto chiudere tutte le porte in faccia dal mondo del lavoro, compreso lo stesso ateneo che fino ad allora aveva rappresentato tutta la sua vita.
Purtroppo all'interno del mondo accademico non è raro imbattersi in casi simili a quello di Norman: studenti delusi e gà sconfitti a 20 anni, senza alcuna prospettiva se non quella di tirare il più a lungo possibile i corsi per non dover fare i conti con la cruda realtà; laureati che a 30 anni, dopo vari inutili tentativi di trovar lavoro fisso, tornano sui banchi per provare a ottenere il dottorato o un master (pensando così di fare un salto avanti); ragazzi che mollano a pochi esami dalla fine perché si presenta un'occasione di lavoro malpagata e inferiore alle aspettative, sì, ma sempre meglio dello zero assoluto del poi, sono ovunque.
Tra gli universitari italiani, a tutti i livelli e in tutte le facoltà, serpeggia la netta sensazione di una colossale presa in giro ai loro danni da parte delle istituzioni e, a volte, delle stesse famiglie: alla promessa di uno stipendio che giustifichi gli anni spesi sui libri si sostituisce l'incertezza del precariato e la burla dello stage (il vero nemico di chiunque voglia lavorare al giorno d'oggi); le esigenze di indipendenza proprie di ogni essere umano si trasformano nel terrore di non farcela a lasciare il nido senza aiuti; l'idea di fondare una famiglia autonoma diventa quasi una lontana e inavvicinabile utopia.
Non proprio quello che ci si aspetta al momento dell'iscrizione, insomma.
E allora come non prendersela con quella riforma Moratti che ha immesso nel mondo del lavoro schiere di "laureati a metà" - perlopiù liceali svogliati costretti dai genitori a continuare gli studi, poco preparati teoricamente ma ugualmente insigniti dell'ambito (fino a tempo fa almeno) titolo di "dottore" -, a discapito di chi ha frequentato fino in fondo e con impegno i percorsi di studio?
Come accettare che Norman, un serio studente di provata capacità, non riuscisse a trovar lavoro perché il mercato è saturo di troppi giovani meno preparati ma che ambiscono agli stessi posti?
E ancora, come sorvolare sui problemi dei favoritismi, delle raccomandazioni, dei familiarismi, elementi così spiccatamente marcati nel nostro Paese da essere ormai quasi considerati legittimi?
Lascio queste e altre domande al ministro Gelmini, nell'infantile speranza abbia in mente anche solo una minima soluzione per rendere dignità al povero Norman e in generale al mestiere dello studente, che in Paesi più civili è ritenuto una preziosa garanzia di innovazione e progresso e non un peso sociale da sistemare alla bell'e meglio.
La situazione è critica, ma almeno ora il mondo politico sembra aver preso coscienza del problema e in tempi recenti si è perlomeno mobilitato, a modo suo, per cercare di risolverlo.
Purtroppo però ho qualche difficoltà a credere che i tagli agli atenei, misura preferita dall'attuale governo, siano davvero la soluzione più indicata....
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