Ieri quattro militari italiani sono rimasti uccisi, e un altro ferito, in un attentato kamikaze (rivendicato dai talebani) nella Valle del Gulistan, di ritorno da una missione nell provincia nell'area sud-occidentale afghana di Farah.
E come sempre accade in questi casi la spicciola retorica dei media "ufficiali" e del mondo politico in toto non si è fatta attendere: panegirici sul coraggio, la disciplina, la virtù dei nostri giovani sacrificati all'altare della pace (!!!) internazionale si sprecano, mentre giornali e soprattutto tv si fanno ogni giorno più sfacciati nello speculare sulle vite dei defunti, siano essi militari o civili anche più innocenti (vedesi il recente caso di Sarah Scazzi, di cui credo parlerò in un prossimo post se troverò il tempo).
"Mi sono rotto di stare qua in Afghanistan, non si capisce nulla". Parole di Luca Cornacchia, il militare abruzzese rimasto ferito nell'attentato di ieri, condivise su Facebook quasi come sfogo di un sentimento da troppo tempo represso, che purtroppo trova modo (e cassa di risonanza) per esplodere in tutta la sua disarmante semplicità soltanto quando la tragedia si è ormai compiuta.
Personalmente sono d'accordo con Luca: non ci capisco nulla di questa guerra, o missione di pace come molti si ostinano a chiamarla, e credo di non essere il solo in queso strano Belpaese.
La verità, almeno quella più certa e inconfutabile, è che la gente in questa brutta faccenda muore. E muore davvero, all'improvviso, senza distinzioni tra giovani e vecchi, talebani, italiani o americani, troppo lontano dagli alti scranni del potere costituito perché gli sproloqui politici, nei quali è impossibile non notare una certa ricercatezza di sapore vagamente "elettoral-propagandistico", possano veramente significare qualcosa.
Nel caso specifico quattro nostri connazionali sono morti rappresentando l'Italia, e giustamente la patria è in lutto. Ma a mio parere troppo poche sono le informazioni riguardo questa guerra (o missione, che dir si voglia) a disposizione dei cittadini, della gente comune che con i propri sacrifici (certo inferiori a quelli delle vittime in Afghanistan, ma comunque indispensabili) la sta finanziando ogni giorno dal lontano 2004, inizio dell'impegno militare italiano in Afghanistan. Anzi, diciamoci tutta la verità: di questa storia si sente parlare soltanto quando qualcuno perde la vita, e i familiari distrutti dal dolore diventano pane per gli affilati denti dei canali mediatici, oppure quando qualche oscenità carceraria statunitense viene rivelata. E solo nel discorso complesso e articolato che viene a crearsi attorno alle sempre più redditizie miserie umane, di sfuggita, riusciamo a vedere cosa i nosti soldati stiano effettivamente facendo laggiù, come fisicamente portino aiuto alle popolazioni dilaniate dalla miseria che abitano quella terra. Così, en passant tra il pianto di una moglie e il saluto di un collega affranto.
Allora di colpo tutta la faccenda torna alla nostra memoria di occidentali soddisfatti, tutti quei ragazzi dispersi sulle inospitali colline afghane e la povertà, le malattie, la fame di migliaia di esseri umani ci assalgono per qualche giorno e ci pongono domande di cui non conosciamo la risposta, prima di tornare ad essere lontani affari troppo grandi e complicati perché a noi profani sia realmente utile o consigliabile pensarci. Se poi la cosa sarà stata particolarmente toccante magari si farà un film, e per un altro po' la cosa sarà argomento di interesse comune e qualche lacrima ancora verrà versata prima di che il tutto faccia ritorno al limbo della coscienza.
Ogni volta che il teatrino si ripete, pare che qualcosa interno alla popolazione tutta davvero si spezzi, e si faccia sentire in tutta la sua assurdità: il naturale dolore comune a tutti gli esseri umani nel sapere o assistere alla morte di un proprio prossimo (sentimento che nel 21esimo secolo si ' decisamente svalutato), anche se lontano e percepito come "altro", misto a un latente senso di colpa derivato dalla consapevolezza della nostra totale estraneità alla vicenda, ci colpisce in pieno volto, e ci porta a renderci conto in un istante di quanto poco sappiamo di quei ragazzi, del perché siano morti e di quali siano state le loro mansioni; degli obiettivi parziali raggiunti e di quelli futuri che l'Italia ha studiato per potersi disimpegnare una volta che tutto sarà finito (se mai finirà a questo punto); delle misure di sicurezza dei nostri giovani e di come il nostro impegno sia vissuto dalla gente del luogo.
Di tutte queste e altre cose non sappiamo quasi nulla.
Sappiamo soltanto che quattro militari "buoni", "giovani", "coraggiosi" ed "eroici" sono morti mentre compivano il proprio dovere nell'ambito della "missione di pace italiana in Afghanistan".
Ma queste caratteristiche i quattro soldati uccisi ieri le avevano anche da vivi, credo.
E forse sarebbe stato il caso di parlarne allora, di non riempirli di squallida abilità oratoria funeraria quando tutto era finito ma di di rendere quest'intera missione più vicina e più viva agli occhi dei cittadini - a noi, esseri umani dotati di raziocinio e quindi con il diritto di essere informati - e dei ragazzi che nel mondo ci rappresentano, sempre meno convinti dell'utilità del proprio lavoro e consci della scarsa considerazione che esso riscuote in ampie fasce della popolazione.
Forse, e dico forse, sarebbe stato utile spiegare (e lo sarebbe tuttora, intendiamoci) a tutti cosa stavano facedo quei ragazzi laggiù più nel dettaglio, e perché questa "missione di pace" è così strettamente necessaria per il nostro Paese.
Così, forse, amici e parenti dei 35 morti italiani dall'inizio del conflitto potrebbero avere almeno la coonsolazione o la speranza che i loro cari non siano morti invano.
Forse così tutti ci capiremmo qualcosa davvero....
Nessun commento:
Posta un commento