Il proliferare delle moderne macchine fotografiche digitali, iper-compatte e alla portata delle tasche di tutti, rappresenta certamente la nuova frontiera dell'informazione (il citizen journalism, per sua stessa definizione, non può farne a meno) e allo stesso tempo una forma espressiva di facile accesso per alcuni, ma a mio modo di vedere (e non solo) anche un rischio pericoloso e da non sottovalutare.
Che la vita della maggior parte dei giovani sia vissuta a metà strada tra il mondo vero e la tastiera di un pc, attraverso la quale questo mondo diventa "condivisibile" con chi non fosse stato presente in un determinato momento, non è certo una novità né un fatto che si possa contestare più di tanto, soprattutto alla luce dell'enorme numero di iscrizioni che social network quali Facebook o Twitter ricevono ogni giorno.
All'interno di questo panorama sconfinato di utenti, milioni (anzi, miliardi) di contenuti vengono scambiati ogni giorno, e perlopiù si tratta di fotografie o video caricati su youtube (la scrittura, che pure è fondamentale, sembra quasi un corollario di altri elementi più "dinamici") e messi a disposizione degli amici o addirittura dell'intero pubblico del network.
L'informativa sulla privacy di Facebook (più lunga della Costituzione degli Stati Uniti) è inaccessibile ai più sia per la lunghezza del testo che per il linguaggio tipico del "burocratese" quasi incomprensibile in cui è scritta: una trappola che solo con un paziente lavoro da certosino può portare a una qualche informazione. Sarebbe invece cosa assai giusta rendere il tutto più chiaro, visti i rischi cui ciascun postatore può incorrere.
Il fatto, riassunto in breve, è questo: come molti sapranno Facebook si riserva il copyright su ogni contenuto inserito dagli utenti, e non cancella MAI le informazioni a meno che dagli stessi users venga segnalata una qualche irregolarità, che comunque prima di essere eliminata deve passare da una commissione che valuti la reale gravità del problema e si pronunci sul da farsi come fosse un "tribunale virtuale".
Ciò significa che tra 10 o 15 anni per voi sarà ancora possibile sapere che sabato 9 settembre 2010 mi sono ubriacato con i miei amici, o che ho passato le mie vacanze ad Amsterdam nell'estate 2008, o ancora vedere una mia foto vestito da pirata in cui faccio veramente una pessima figura. Fino a qui non c'è problema: nessuno darebbe importanza a queste informazioni; ancora si dissocia la vita privata da quella pubblica per fortuna.
Ma la nuova filosofia serpeggiante negli ambienti delle risorse umane non la pensa affatto così: social network e vita in rete sono considerati fattori discriminanti e rivelatori al momento di assumere un nuovo dipendente, e in casi estremi persino per liberarsene (a Stacy Snyder, insegnante statunitense, è stata inibito l'insegnamento dopo che la commissione scolastica aveva rinvenuto una sua foto in stato di ebbrezza mentre indossava un cappello da pirata come quello da me sopra menzionato).
Rimanere per sempre legati a una esistenza pubblica che non conosce dimenticanza, con la possibilità che un giorno i nostri errori di gioventù stupidamente reclamizzati su Fb possano interferire con la nostra vita futura, è soltanto uno dei rischi della fotografia nell'era digitale, ma non certamente l'unico.
Un secondo fenomeno, che mi colpisce per la sua schietta evidenza ogni volta che vi entro in contatto, è il moderno abuso indiscriminato del mezzo fotografico.
Da amante di musica dal vivo quale sono (anche se di scale e sottotoni non capisco assolutamente nulla) cerco di andare più spesso possibile a godermi qualche buon concerto (non vedo l'ra di sentirmi Prince a Milano!!), e talvolta mi capita di portare anche la mia digitale per immortalare l'evento e magari scriverci un pezzo con corredo fotografico (preciso: non sono del mestiere ma ogni tanto le richieste sono specifiche e si fa quel che si può...).
Un paio al palco, alla folla, un paio all'artista finché la bolgia non diventa insopportabile e via, per non rivederla fino alla fine dello show e lasciarmi finalmente andare alla magia delle note.
Bene, accanto a questo atteggiamento che ritengo moderato e sostenibile c'è anche quello che mi piace chiamare della "Foto Compulsiva", fenomeno recente derivato anch'esso dalle nuove possibilità offerte dalla fotografia digitale: centinaia di flash illuminano a ripetizione palco e artisti (tanto la scheda non finisce mai e se finisce si scarica sul pc), e nel tentativo di scattare qualche opera "di pregio" parte del pubblico passa il più del tempo immobile a braccia alzate, ma stranamente non per ballare o incitare gli artisti. Ovviamente si tratta di un esempio, ma spero concorderete che molte sono le situazioni simili (e se non è così accetto di buon grado ogni genere di correzione!!!).
Questo dato, di per sé risibile se paragonato ad altri scempi in atto nel nostro Paese, mi sembra tuttavia preoccupante soprattutto per la serie di implicazioni sociali che sottintende e che non vengono a mio modesto parere tenute in debita considerazione: in qualche modo il valore di un'esperienza pare essersi svuotato del suo senso e valore se questa non può essere dimostrata, "toccata" anche da chi non ha partecipato. Ci stiamo in pratica avvicinando a quel San Tommaso incapace di credere persino al Messia senza una prova tangibile della sua presenza.
Il racconto si abbandona e lascia spazio alle lusinghe dell'immagine e dell'immediatezza, perdendo quei connotati individualistici e personali che caratterizzano il discorso orale. In altri termini, la parola conta di meno e ci si fida meno degli altri, portati come siamo ad aver bisogno di testimonianze visibili per "credere". La distanza tra esseri umani appartenenti a gruppi anche vicini si fa incolmabile: la frenesia di rappresentare si sostituisce a quella di vivere, e nelle menti di chi guarda la qualità della rappresentazione sembra farsi sempre più rivelatrice della qualità dell'intera esperienza stessa.
Così, viene naturale prestare più attenzione a quanto è tramandabile e possibilmente spendibile socialmente (le foto appunto), piuttosto che godersi una situazione comunque abbastanza "normale" e che sarebbe ben poco emozionante se raccontata a parole. La foto sostituisce ciò che rappresenta, rendendo quello irreale e lontano rispetto alla stretta fisicità dello scatto che invece risulta tangibile e condivisibile.
Insomma, per dimostrare di essere da qualche parte un numero crescente persone finisce per non esserci del tutto.
Le due considerazioni portate avanti fin qui ovviamente sono in stretto rapporto tra loro: la smania di rappresentare la nostra vita per poterla ricordare e "dimostrare" a chi ci sta intorno (o lontano, se ancora significa qualcosa nell'era di internet) ha come conseguenza un'estensione continua nella sfera del rappresentabile, un ammorbidirsi dei limiti che regolano la scelta di cosa sia condivisibile e cosa no assolutamente libero e non imposto dall'esterno.
In breve potremmo arrivare a condividere davvero tutto di noi, senza più filtri tra ciò che dovrebbe essere tenuto gelosamente nella sfera amicale e quello che invece riguarda la sfera pubblica e sociale.
Se a questo uniamo l'immortalità delle informazioni su siti come Facebook non è difficle immaginare una situazione che tra qualche tempo potrebbe decisamente sfuggire dalle mani degli stessi utenti che l'hanno creata (per fortuna già esistono associazioni che si battono per ottenere l'eliminazione dei dati personali in rete dopo un certo periodo di tempo, dando modo di ottenere una "seconda vita" virtuale all'utente).
Senza dubbio il mezzo fotografico oggi rappresenta un importante simbolo di libertà e un alleato sempre più agguerrito dell'informazione in prima persona (si vedano le foto o i tanti video sull'attentato dell'11 settembre ad esempio), oltre che una buona opportunità di auto-determinazione messo a disposizione di chiunque lo voglia (almeno nel mondo occidentale per ora).
Tuttavia credo sia necessario riflettere attentamente sulle sue nuove potenzialità e sull'uso che di esso viene fatto soprattutto dai giovanissimi, se non vogliamo che pian piano proprio l'inequivocabilità e la fissità della fotografia, sue caratteristiche peculiari, uccidano le vite reali dei fotografi.
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